Speciale

XIX Congresso Nazionale di Md

di Esecutivo di Magistratura Democratica

L’intervento di Emilio Sirianni

Autogoverno, magistrati
fuori ruolo, direttivi, natura e fini dell’ANM, processo costitutivo di Area e questione,
sempre attuale, dei rapporti fra magistratura e mezzi di informazione: dal
congresso di Napoli ad oggi è pressoché solo su tali temi che ci siamo
confrontati. Che sono poi gli stessi che monopolizzano la discussione anche all’interno
di “Area”

Temi senz’altro
ineludibili per chi faccia politica giudiziaria, ma già dalla loro enunciazione
emerge, con evidenza, la raffigurazione di una magistratura tutta compresa nel
riflettere su se stessa. Si percepisce un vuoto.

Il venir meno o l’affievolirsi di una presenza che non
circoscriva l’orizzonte della propria azione culturale e politica all’interno
della corporazione e delle proprie istanze. Al quale la definizione di
“corrente interna all’associazione nazionale magistrati” vada stretta. Un
soggetto che continui ad esser percepito ed a percepirsi come comunità
d’intellettuali, di giuristi, di sinistra e consapevole del fatto che è proprio
sul terreno dei diritti e della loro tutela e declinazione che la categoria
politica della “sinistra”  conserva
ancora un senso.

Un soggetto, pertanto, impegnato in una prospettiva di
cambiamento, non solo della magistratura, ma del Paese e che, in fondo, muova
da alcune semplici idee (per dirla con le belle parole di Beniamino Deidda):  che applicare la legge voglia dire “prima di
tutto farsi garante dei diritti dei più deboli” e che non sia possibile equidistanza
fra i forti e i deboli per l’evidente ragione che i primi non hanno bisogno
della legge, avendo già la forza [1].

Un soggetto che avverta il bisogno di “uscire tra la
gente” (mia irriverente traduzione dello “scendere tra il popolo” di Ramat[2]) e da lì guardare alle
vicende della giurisdizione, vicende che non si esauriscono nei problemi di
risorse e mezzi, di organizzazione ed efficienza, di interlocuzione con la
politica, di esposizione mediatica ed “apparenza” d’imparzialità. 

Un soggetto che sappia guardare nei luoghi meno
illuminati della giurisdizione, che ne sappia interpretare le contraddizioni e
diagnosticare tempestivamente i mali. Che sappia guardare con disincanto agli
affreschi agiografici dei tribunali di frontiera, eroici baluardi a presidio di
legalità e giustizia e sia ancora capace di esercitare la fatica della
distinzione. In grado di leggere i peana sui magistrati silenziosi che, ogni
giorno, “indossata la giacca o il
tailleur d’ordinanza, accompagnano i figli a scuola e poi vanno in ufficio
senza altro pensiero che mantenere il giuramento di fedeltà alla Repubblica”
,[3]
per quel che sono: rappresentazioni di cartapesta, buone, al più, per una
tornata elettorale. Un soggetto consapevole dell’esistenza d’una magistratura
che, non solo non disdegna frequentazioni ed appartenenze opache, ma, anzi, quasi
le esibisce, che fa promesse e ne chiede, mai sazia dell’erogazione illecita di
servizi di vario genere.

Consapevole che una consistente parte della
magistratura si è fatta, storicamente, garante di equilibri politici e sociali
fondati sulle diseguaglianze e sui privilegi.

Un soggetto che, pertanto, non si senta disarmato di
fronte allo squallore di un caso Giglio o Giusti o Staffa. Amareggiato, sì, ma
non attonito. Addolorato, persino, ma non annichilito.

C’è bisogno di un soggetto che sappia affrontare il
problema delle “esternazioni” dei magistrati e del loro rapporto con i media ed
i partiti politici, munendosi di strumenti d’analisi un po’ più sofisticati
dell’equivoco concetto di “apparenza d’imparzialità”. Che ad essi si approcci
senza mutuare il lessico dai Talk show.

Capace di comprendere e dire che il problema è l’inesorabile,
inestricabile, rapporto determinatosi fra processo penale e media ed, in esso,
fra uffici requirenti e media; d’intendere l’oggettiva connotazione politica
che, in tal modo, è venuta assumendo l’azione delle Procure, potenzialmente
accentuata dalla loro ristrutturazione in senso gerarchico.

Un soggetto capace di comprendere e dire che il
pericolo per gli equilibri processuali e per gli stessi assetti costituzionali
proviene da quei magistrati che trasferiscono sul palcoscenico mediatico la
materia del processo, che, addirittura, fanno del processo lo strumento della
propria affermazione personale. E che la sua forma più grave non si manifesta
neppure con le interviste e le partecipazioni a trasmissione televisive, ma con
la torsione verso finalità mediatiche del contenuto di atti processuali.

Un soggetto che sia, quindi, capace di comprendere che
sono questi i veri problemi e non l’uso infelice di un’espressione suggestiva o
il contesto “partitico” in cui è pronunciata e che unirsi al coro di chi per
questo si scandalizza rischia di escludere dal proprio orizzonte culturale il
momento della reciproca trasmissione di conoscenze fra magistratura e politica,
fra magistratura e società, che, invece, è momento ineludibile di un impegno a
difesa  e sostegno di una democrazia
purtroppo sempre più traballante. 

O, per cambiare argomento, c’è bisogno d’un soggetto
che sia in grado di comprendere e di dire che la “macelleria messicana” della
Diaz non è un fatto isolato e casuale. Perché, al di là dello specifico di una
destra feroce ed assetata di rivalsa e di un apparato di sicurezza ancora
incrostato d’ideologia fascista ed incapace di liberarsi dei troppi elementi di
continuità con quel regime, c’è dell’altro. Come l’antefatto degli scontri alla
Questura di Napoli e le repliche –pur in tono decisamente minore- a Roma ed in
altre grandi città dimostrano.

Che sia in grado di dire che, al di là di tutto
questo, c’era e c’è una prepotente richiesta di repressione del dissenso da
parte del nuovo potere economico e finanziario. Dissenso mal tollerato in epoca
di pensiero unico, perché d’ostacolo al modello di società che quei poteri
perseguono ed in alcuni contesti, come nel caso dell’Alta Velocità in Val di
Susa, anche in grado di pregiudicare o anche solo ritardare l’esito perseguito
di enormi investimenti di capitali.

Non si fosse costretti nei limiti di un intervento
congressuale, il catalogo delle ragioni che richiedono la presenza di un simile
soggetto potrebbe continuare a lungo: che si ragioni di danni all’ambiente ed
alla salute o di diritti dei lavoratori; di identità sessuali o di scelte di
procreazione; di atti di disposizione del proprio corpo o di dichiarazioni di
fine vita. 

E’, nel complesso, un’azione politico-culturale che
non può essere affidata ad Area. Perché, all’evidenza, non è questa la sua
azione, né è questo il suo ruolo e dirlo non è manifestazione d’arroganza, ma la
banale constatazione che, da quando l’idea di Area ha preso forma, non è mai attorno
a questi temi che si è andata consolidando.

Ben venga un’Agorà, allora, in cui potersi confrontare
sulle questioni dei direttivi, dei fuori ruolo, dell’autogoverno, del
disciplinare…

Che ci sottragga allo splendido isolamento del passato
e proponga i punti di vista e le difficoltà dei molti colleghi che invocano
rigore e trasparenza in ognuno di questi ambiti e non disponibili a
confrontarsi in altri “luoghi”, politicamente più caratterizzati. E si
strutturi, dunque, Area in base a tali specifiche finalità e non come nuovo
“soggetto”, termine che lascia intendere ben altro.

Per il resto, per un’azione culturale e politica che
abbia, invece, come prospettiva quel più ampio orizzonte di cui ho provato a
parlare, un soggetto c’è già.

Magari un po’ ammaccato, rattrappito, persino
intimorito a tratti, ma c’è ancora e si chiama Magistratura Democratica

Emilio Sirianni


[1]
Dal saluto di Beniamino Deidda ai colleghi, Aula Corte d’Assise d’Appello di
Firenze, 5 novembre 2012

[2]
Capitolo VII “E non poter scendere fra il popolo”, in appendice al volume
“crisi della giurisdizione e crisi della politica”

[3]
Mail di Vincenzo Giglio, della quale non ho conservato la data, in risposta
alla mia intervista sulla magistratura in Calabria, quest’ultima comparsa sul
Sole24Ore, se non erro, nell’ottobre 2007

11/02/2013

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