“La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”, è il messaggio contenuto nella sentenza che travolge due precedenti sui quali si è basata, per quarantanove anni, la legalità dell’aborto negli Stati uniti, con la conseguenza di rimettere ex novo la questione ai singoli Stati i quali, in assenza di una legge del Congresso che regoli l’aborto a livello federale, tornano liberi di decidere se e a quali condizioni consentire alle donne l’interruzione della gravidanza.
È estremamente chiaro il disegno instaurato sotto la Presidenza Trump, che ha avuto uno dei principali obiettivi di governo proprio nello smantellamento dell’equilibrio della Corte, sbilanciandone a destra la composizione con la discussa nomina in corner della Giudice Coney Barret, allieva di Antonin Scalia e fautrice della tesi dell’original intent: tesa a neutralizzare ogni evoluzione interpretativa della Costituzione in tema di diritti civili (ma molto meno, ad esempio, in tema di armi) e a restringerne l’applicazione al significato storico minimo, così bloccando quella che noi definiamo “Costituzione vivente” o “Interpretazione costituzionalmente orientata” in tema di nuovi diritti: dalle tutele dei cittadini migranti e degli apolidi, al restraint della pena di morte, sino alle questioni ambientali e, appunto, ai diritti delle donne e ai diritti di genere.
È probabile che fra i prossimi obiettivi di una Corte ormai prigioniera della destra radicale, e che per questo rischia di perdere credibilità, apparendo ormai come organo giurisdizionale di una parte e non dell’intera cittadinanza, ci saranno il diritto all’acquisto e all’uso dei contraccettivi e, a seguire, il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Pur nella sostanziale differenza dei sistemi giuridici e degli ordinamenti giudiziari europei, e di quello italiano in particolare, rispetto al modello americano, non possiamo non vedere che anche in Europa è in atto un tentativo, che apertamente si ispira alla dottrina Trump, di tornare indietro rispetto a diritti di civiltà che tendiamo a considerare ormai acquisiti e indiscussi.
Sappiamo che è in atto in Europa una crociata fondamentalista contro la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata in Italia con Legge 27 giugno 2013, n. 77; e anche la recente vicenda, tutta italiana, del progetto di legge numero 735, meglio conosciuto come “Decreto Pillon”, ispirato al diritto alla “bigenitorialità perfetta” e all’abolizione dei provvedimenti economici correlati alla collocazione prevalente del minore, in senso deliberatamente punitivo verso le donne, dovrebbe farci riflettere.
Non esistono diritti acquisiti una volta per tutte. Anzi, mentre l’opinione progressista occidentale ha passato gli ultimi decenni seduta sull’erronea convinzione che i diritti acquisiti non si possano perdere, un movimento fondamentalista globale, radicalmente conservatore, bellicista, idolatore delle armi e ferocemente antifemminista, ha invece lavorato ai margini, non solo in America ma anche in Europa, riuscendo a trovare l’appoggio della componente cattolica più ideologica e politicizzata.
In questo momento più che mai la giurisdizione italiana deve stringersi a baluardo della propria indipendenza e a servizio dei diritti civili, affermandone strenuamente la non negoziabilità e la non disponibilità al consenso politico.
Più che mai sentiamo la necessità di affermare le ragioni e la necessità di una magistratura autenticamente progressista che, proprio in nome della sua indipendenza dalla politica, non abbia mai timore di stare dalla parte dei diritti, e di ergere un recinto giuridico invalicabile alle spinte populiste, fondamentaliste e regressive che cercano di attaccarli.