Salvatore ci lascia mentre i giornali e le televisioni raccontano una deriva del costume della magistratura, o di una parte significativa di vertice, molto lontana dall’insegnamento che per quasi cinquant’anni ci ha dato.
Salvatore ha trascorso i lunghi anni della sua operosa vita prima a fare il pretore, poi il giudice, poi il consigliere del CSM, in uno dei momenti più difficili per la magistratura, poi il parlamentare per dieci anni e, infine, di nuovo il giudice, fino al collocamento a riposo.
Qualcuno di noi ricorda nitidamente quale impressione avevamo di questo suo disinvolto passare da una funzione all’altra, dall’esercizio della giurisdizione alla politica e viceversa. Salvatore dava l’impressione di svolgere sempre lo stesso mestiere: che stesse in un’aula di giustizia o in un’aula del Parlamento, la sua enorme cultura giuridica (che non esibiva mai) gli consentiva di individuare l’interesse pubblico come unica guida di ogni suo intervento.
Che facesse il giudice o il senatore della Repubblica, gli obiettivi non cambiavano: l’attuazione ferma dei principi costituzionali, la realizzazione del principio di eguaglianza tra i cittadini, l’indipendenza della magistratura da ogni potere.
Non ha cercato altro, non ha inseguito altro per tutta la vita, attraverso una lunga e originale riflessione sul diritto interno e sul diritto dei popoli.
C’è stata una lunga stagione nella vita di Salvatore in cui lo studio del contesto internazionale è sembrato prevalere su quello degli equilibri giuridici interni al nostro paese. Ma era solo un’impressione, moltiplicata dalla passione con cui Senese seguiva le vicende di altri paesi del mondo che gli erano cari, oppure del Tribunale dei popoli, cui dedicò molte energie. Ma non perse mai di vista le vicende politiche e giudiziarie del nostro paese.
Quando, finita l’avventura politica, ritornò a fare il giudice, sembrò che fino ad allora non avesse fatto altro. A nessuno venne in mente che la lunga militanza politica potesse incrinare la sua imparzialità, il suo distacco dai partiti e dalle fazioni. Anzi, a molti metteva soggezione il suo distacco dalle piccole vicende quotidiane e quella sua capacità di individuare soltanto gli interessi generali e i principi di fondo dell’ordinamento.
E colpiva il suo disinteresse per la carriera: era troppo autorevole per avere bisogno di qualche incarico.
Il suo disinteresse fu clamoroso quando, per un posto prestigioso in Cassazione, gli fu preferito un altro collega, che non aveva né la sua smisurata cultura, né la sua esperienza, né la sua prestigiosa carriera alle spalle.
Salvatore non disse una parola, continuò a lavorare insegnando ancora una volta a tutti come si comporta il magistrato voluto dalla nostra Costituzione.
Ma crediamo che, nel momento buio che stiamo attraversando, la cosa che più ci mancherà è lo spirito e il senso con il quale Salvatore ha vissuto l’esperienza delle correnti in magistratura. La sua convinzione incrollabile era che solo le correnti potessero preservare la magistratura dai rischi di essere e apparire una corporazione; che solo il respiro ampio della riflessione sul modello di giudice elaborato dalle correnti potesse avvicinarci a quello prefigurato dai padri costituenti.
Che le correnti potessero servire per fare carriera era un’idea che non lo sfiorava.
Non era un ingenuo Salvatore, ma il suo orizzonte culturale ed etico gli impediva di concepire cadute di ogni genere.
Salvatore ha fatto molto per Magistratura democratica; ma la sua lezione e il suo esempio sono oggi per tutti noi necessari, come mai è accaduto per il passato.