Rassegna

L’intervista a Mariarosaria Guglielmi

di Esecutivo di Magistratura Democratica

Il Dubbio, 29 agosto 2017

C’è una magistratura consapevole, preoccupata, capace di
autocritica e di non guardare alla sola ricerca del consenso in vista delle
elezioni al Csm. Mariarosaria Guglielmi, pm a Roma e giovane segretaria di
Magistratura democratica, è un esempio di questa vigilanza che le toghe non
hanno affatto smarrito. Ammette una “responsabilità” rispetto a “errori ed
eccessi, che non sono mancati, anche nelle indagini condotte nei confronti
della classe politica”, e agli “effetti avuti nella diffusione di atteggiamenti
giustizialisti”. Riconosce però anche il ruolo che la magistratura può
continuare ad avere “nella difesa dei principi costituzionali, come l’indipendenza
e il presidio dei diritti fondamentali”, anche “nel dialogo con l’avvocatura”. A
tal proposito, Guglielmi ricorda “la grande sfida che le parole dell’avvocato
Mascherin ci hanno consegnato: avvocatura e magistratura su questo terreno
possono diventare una ‘forza a cui è difficile contrapporsi anche culturalmente’”.

Dottoressa Guglielmi,
in un suo intervento su Repubblica della scorsa settimana, lei ha indicato il
rischio di un pregiudizio diffuso nei confronti dei deboli, innanzitutto dei
migranti. Pregiudizio che, secondo la sua analisi, si riflette in alcune scelte
politiche non condivisibili, che viene amplificato dai media e che fatalmente
si radica nell’opinione pubblica. Crede che questo fenomeno abbia un legame con
il diffondersi di un generale atteggiamento giustizialista? C’entra qualcosa
anche la continua caccia al colpevole alimentata da alcune trasmissioni
televisive?

Quando in materia di giustizia e di diritto penale si
ricorre alla demagogia e alle sue semplificazioni si rischia di smarrire la
consapevolezza dei valori complessi, come quelli del garantismo, di invocare la
pena a tutti i costi, di non riconoscere il carattere relativo della verità
processuale. Le semplificazioni del giustizialismo non distinguono però fra
soggetti “deboli” e soggetti “forti”. È vero il contrario: nella logica
giustizialista, le garanzie diventano inutili formalismi sia quando si chiede
di punire e così di neutralizzare il nemico sociale, il migrante ma anche il
povero, sia quando ai giudici si chiede di “vendicare” i torti che abbiamo
subito ad opera del “potente” di turno.

Parliamo insomma di
una categoria che precede altri sentimenti collettivi di base.

Un momento. Il giustizialismo vuole i suoi nemici dichiarati
ed è l’altra faccia delle scelte di politica criminale che li ricostruisce. Scelte
che in tema di immigrazione hanno prodotto il reato di clandestinità con la finalità
di esprimere il massimo disvalore rispetto al migrante “irregolare” e
criminalizzare la persona in quanto tale. La conferma della cifra ideologica di
questo reato è nelle ragioni dichiarate per le quali, preannunciata ed invocata
anche da esponenti politici di rilievo, la sua abrogazione è stata rinviata:
ragioni di “opportunità” per non inviare all’opinione pubblica un “messaggio
negativo per la percezione di sicurezza”. Ancor più che il pregiudizio, queste
scelte tradiscono la logica del nemico, che oggi riconosciamo nel linguaggio e
nei contenuti del dibattito pubblico sull’immigrazione e che porta a scelte di “esclusione”,
anche quando contrarie a principi elementari di civiltà giuridica, mi riferisco
alla riforma della cittadinanza, come risposta al senso di insicurezza e di
paura della collettività.

Fino a che punto un
certo atteggiamento giustizialista può essere stato innescato da alcuni
possibili eccessi dell’azione penale – e delle sue proiezioni mediatiche –
condotta negli ultimi anni nei confronti della classe politica?

La magistratura non deve mai fare sconti a sé stessa nel
riconoscere le sue responsabilità, nell’analizzare le cause dei suoi errori ed
eccessi, che non sono mancati anche nelle indagini condotte nei confronti della
classe politica, e sugli effetti avuti nella diffusione di atteggiamenti
giustizialisti. Questo le consente di rivendicare credibilmente il ruolo svolto
nella tutela e nella riaffermazione della legalità nel nostro Paese, come
valore della nostra democrazia, e che ne ha fatto un argine alla crisi di
sfiducia che ha investito le istituzioni. Con la capacità di autocritica, l’attenzione
alle garanzie, la consapevolezza dei limiti della propria funzione, la
magistratura deve oggi confrontarsi con i rischi delle nuove forme del
populismo giudiziario e con i sentimenti dell’antipolitica che alla
magistratura chiedono di attribuirsi e di interpretare il ruolo di unica
istituzione sana del Paese. Un ruolo molto rischioso, che ci porta fuori dal
recinto del confronto istituzionale nel quale nessuno può scegliersi gli
interlocutori e tutti sono obbligati a riconoscersi reciproca legittimazione.

Lei rappresenta un
importante gruppo associativo di magistrati progressisti, e in un momento
culturalmente difficile come questo vi fate carico di sollevare dinanzi all’opinione
pubblica i rischi dell’indifferenza nei confronti dei più deboli. A proposito
di quegli eccessi in cui si è imbattuta l’azione penale, avverte una qualche
responsabilità indiretta, come magistrata e come magistrata progressista,
rispetto al maturare di quest’indifferenza?

Anche all’ultimo congresso di Bologna del 2016 Magistratura
democratica ha ribadito il senso del suo impegno nella società e nella giurisdizione
a favore dei diritti e delle garanzie. Un impegno che tutta la magistratura
progressista rappresentata da Area democratica per la giustizia deve portare
avanti nel dibattito associativo e nell’autogoverno per contrastare chiusure e
derive corporative, per favorire una crescita collettiva della magistratura con
l’attenzione ai valori costituzionali della giurisdizione. Questo impegno nasce
anche dalla consapevolezza delle nostre responsabilità per aver subito e in
parte assecondato il ripiegamento della magistratura verso forme di
neocorporativismo, a scapito dell’attenzione sulle tematiche della
giurisdizione, e di dover recuperare una forte capacità di autocritica e di
vigilanza anche rispetto a scorciatoie e a prassi discutibili sulle quali si
misura, in concreto, la tenuta del sistema delle garanzie.

Al di là del ruolo
svolto dalla giustizia penale, il giustizialismo e l’indifferenza di parte dell’opinione
pubblica rispetto al dramma degli ultimi ha un legame con lo smarrimento per l’oggettiva
incapacità della classe politica di fornire risposte al disagio diffusosi con
la crisi?

Giustizialismo, populismo, smarrimento e indifferenza per il
dramma degli ultimi sono espressione di un’emotività che si nutre della
tensione sociale generata dalla perdita di diritti e di tutela. Nell’epoca
delle nuove disuguaglianze, nuovi perdenti si sentono contrapposti ad altri
perdenti, soggetti deboli e senza diritti, come i migranti; si rivendica il
diritto ad escludere gli altri; si perde il senso di appartenenza ad una
comunità nelle quale i valori di eguaglianza, equità e solidarietà sono valori
unificanti e base della coesione sociale. Un’emotività cresciuta nel vuoto
lasciato dalla rinuncia della politica a governare i cambiamenti prodotti dalla
crisi economica e a porre rimedio all’aggressione allo stato sociale e ai
diritti dei lavoratori. E che oggi è il fuoco sul quale soffiano populismi e
nazionalismi.

Il giustizialismo e l’indifferenza
possono essere intravisti anche dietro comportamenti come quello del
funzionario di polizia che ha invitato a spaccare un braccio ai senzatetto che
si fossero opposti allo sgombero?

Nell’intervista rilasciata qualche tempo fa il capo della
Polizia dottor Gabrielli ha parlato dell’importanza di accertare le
responsabilità “sistemiche” per i gravi fatti del G8, al di là di quelle
individuali, e di comprendere quel che rende inaccettabili in uno Stato di
diritto ogni atto di violenza da parte di chi detiene il monopolio della forza
pubblica a tutela della collettività. Gabrielli ha parlato di un tradimento
della fiducia dei cittadini verso le istituzioni, al quale si può rimediare non
solo sanzionando chi ha sbagliato ma con una assunzione di responsabilità da
parte delle istituzioni, che può restituire ai cittadini il senso di
appartenenza ad una collettività. Uso questi stessi parametri per una
valutazione sui fatti di Roma: al di là di quel che ha motivato la condotta di
singoli, che è oggetto di verifica nelle sedi opportune, ciò su cui dobbiamo
riflettere sono le responsabilità sistemiche per una strategia di risposta, in
termini di ordine pubblico e di ripristino della “legalità formale”, a
situazioni che ci pongono di fronte agli effetti di una esclusione dei diritti.
Sono scelte coerenti con l’emotività dei nostri tempi che trasforma il povero,
come il migrante, in una minaccia da neutralizzare e in espressione di
disordine sociale, alla quale si risponde non eliminando le cause della
marginalizzazione ma ciò che la rende visibile.

A breve l’Anm
celebrerà un congresso in cui discuterete anche di immigrazione. La posizione
sua e del suo gruppo è chiara. Crede che possa risultare anche prevalente all’interno
dell’Anm?

La giurisdizione, cito Luigi Ferrajoli, può essere un luogo
di garanzia dei diritti fondamentali di tutti, e perciò dei soggetti più
deboli, solo se sorretta da un forte impegno collettivo della magistratura
nella difesa dei principi costituzionali, come l’indipendenza dei giudici e il
loro ruolo di garanzia dei diritti fondamentali. L’Anm deve continuare ad
essere il luogo dove la magistratura porta avanti questo impegno comune per la
giurisdizione e il dialogo sui diritti e sulle garanzie con l’avvocatura,
raccogliendo oggi la grande sfida che le parole dell’avvocato Mascherin ci
hanno consegnato: avvocatura e magistratura su questo terreno possono diventare
‘una forza a cui è difficile contrapporsi anche culturalmente’. L’Anm si è
sempre impegnata sulle tematiche dell’immigrazione, intervenendo anche sulle
criticità della recente riforma dei procedimenti in materia di protezione
internazionale. La comune consapevolezza dell’importanza dei valori in gioco in
questo ambito è la base dalla quale parte il confronto interno alla
magistratura e ciò che può unire intorno al tema dei diritti le diverse
sensibilità culturali.

In una recente
intervista al Dubbio il consigliere
Morosini ha segnalato il rischio di una eccessiva preoccupazione per la
carriera, che allontani i magistrati dalle grandi questioni della tutela dei
diritti: quel rischio esiste davvero?

L’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento
giudiziario è stata vissuta dalla magistratura come una soluzione di
compromesso rispetto all’originario progetto Castelli ma, al tempo stesso, come
una sfida lanciata dal legislatore per un progetto di autoriforma, che il
sistema di autogoverno ha raccolto, impegnandosi sulle valutazioni di
professionalità e realizzando un effettivo rinnovamento della dirigenza. Una sfida
anche culturale per la magistratura, che imponeva il superamento del principio
della carriera intangibile e della visione della dirigenza come premio di fine
carriera.

Ma proprio Morosini
rileva, tra l’altro, le disfunzioni prodotte dal ricorso a una discrezionalità
che, per non apparire arbitrio, deve rifarsi a qualche parametro “certificabile”
e finisce però così per dare un enorme peso alle valutazioni dei dirigenti
degli uffici.

Il buon uso dell’ampia discrezionalità attribuita al Csm in
materia di nomine richiede un livello alto di tutto il sistema di autogoverno:
fonti di conoscenza e di valutazioni attendibili; impegno nel rendere conto,
anche attraverso motivazioni trasparenti, del modo in cui si esercita la
discrezionalità e dello sforzo di conformarla ai criteri che devono orientarla.
Su questo aspetto la sfida non può dirsi certamente vinta e le criticità emerse
nell’esercizio della discrezionalità sono oggi al centro del dibattito
associativo. A distanza di dieci anni dalla riforma si colgono i segni di nuove
dinamiche di carrierismo e del ritorno a vecchie logiche corporative,
assecondato dalla mancanza di un adeguato investimento sulle “leve” dell’autogoverno
che avrebbero dovuto scardinarle, come le valutazioni e le conferme
quadriennali. Una magistratura concentrata sulle prospettive di avanzamento e
di conservazione della carriera è una magistratura autoreferenziale e non
pienamente consapevole del suo ruolo, che distoglie lo sguardo dalle tematiche
dei diritti e della giurisdizione e, in vista della carriera, è indotta anche a
fare scelte di conformismo giurisprudenziale.

E qui la sua analisi
è assai vicina a quella di Morosini.

Aggiungo che da questa fase dobbiamo uscire non
pensando a scelte rinunciatarie ma rilanciando la “sfida”. La complessità dei
compiti legati alla dirigenza degli uffici e le ricadute delle scelte
organizzative sulla qualità della giurisdizione e sull’efficienza del servizio
per la collettività oggi più che in passato richiedono il nostro impegno per
tornare a promuovere nell’autogoverno un modello culturale di dirigenza come
funzione di servizio. Nell’autogoverno la magistratura deve essere in grado di
assicurare un esercizio trasparente della discrezionalità, che renda
riconoscibili i criteri di valutazione adottati. Reintrodurre forme di
selezione ancorate al solo criterio automatico dell’anzianità senza demerito
rischia di riportarci al vecchio modello di dirigente “buon padre di famiglia”
e di restituire un valore proprio a quelle “certezze” di carriera di cui oggi
la magistratura sente troppo fortemente il bisogno.

Intervista di Errico Novi, Il Dubbio – 29 agosto 2017

29/08/2017

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