XIX
CONGRESSO DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA
QUALE
GIUSTIZIA AL TEMPO DELLA CRISI
Come cambiano diritti, poteri e
giurisdizione
Roma,
31 gennaio/3 febbraio 2013
DOCUMENTO PER IL CONGRESSO DEL GRUPPO EUROPA
a cura di Valeria Piccone, Papi Bronzini e Giovanni Diotallevi
Le due fasi della riforme
istituzionali dell’Unione europea
Il complesso
e certamente non lineare percorso di revisione istituzionale in Europa può
essere distinto in due fasi: la prima, segnata da una progettualità ambiziosa e
da una linea di continuità con gli elementi evolutivi del processo di
integrazione europea, ma costantemente frenata o da dissensi tra gli stati e
dalla loro indisponibilità a cedere maggiori porzioni di sovranità o da inattese
frenate dovute alle resistenze popolari ed alle difficoltà di coinvolgere l’opinione
pubblica continentale; la seconda, connotata da spinte improvvise dettate
dall’emergenza e dominata dai tentativi di superare ostacoli giuridici ed
istituzionali ad una gestione immediata ed efficace della crisi, senza però un
disegno unitario e prospettico sulle mete da raggiungere.
Il primo itinerario
di mutamenti istituzionali, iniziato proprio al volgere del millennio con la
decisione del Consiglio europeo di Colonia di nominare una Convenzione per la
redazione di una Carta dei diritti fondamentali, prosegue poi con la redazione ad opera di una
seconda Convenzione di un “ Trattato- costituzione”, respinto nel 2005 nei due
referendum popolari in Francia ed il Olanda, e si conclude con la ratifica e
poi l’entrata in vigore il I dicembre 2009 del Trattato di Lisbona che, pur non
utilizzando il termine “ Costituzione”, recepisce tutte le principali e più
significative migliorie che la seconda Convenzione aveva previsto.
Si muove,
infatti, dall’importante promozione del ruolo del Parlamento europeo con la
sanzione della codecisione come regola ordinaria di approvazione della
legislazione Ue, alla soppressione della divisione in “pilastri”
dell’ordinamento, alla conferita obbligatorietà della Carta dei diritti e alla
previsione dell’adesione dell’Ue alla Cedu, nonché all’istituzione di due nuovi
organi che si volevano rappresentativi di istanze unitarie e comuni come la Presidenza Ue e il Responsabile
per la politica estera, sino ad arrivare ad un significativo incremento della
partecipazione democratica mediante la previsione della possibilità di lanciare
una ICE ( iniziativa del cittadino
europeo), cioè una raccolta di firme su scala continentale per proporre
un’azione legislativa alla Commissione (una sorta di referendum propositivo,
sconosciuto in genere negli stessi ordinamenti interni).
Viene, tuttavia,
solo marginalmente toccata dalla Riforma la parte più complessa
dell’ordinamento europeo riguardante l’euro, il coordinamento delle politiche
economiche e sociali, in una parola, la governance
economica, nella convinzione o,
forse, nella azzardata scommessa che il quadro legale varato a Maastricht ed ad
Amsterdam sia sufficiente per realizzare gli ambiziosi programmi della Agenda
di Lisbona e che il consolidamento ottenuto degli organi sovranazionali (Parlamento,
Commissione e Corte di giustizia) sia comunque idoneo a conferire un carattere
unitario ed efficiente anche per una moneta ed ad una Banca “senza stato”.
Innovazione e
sperimentazione sono state lasciate nell’ibrido terreno del metodo aperto di
coordinamento, anch’esso revisionato nel nuovo Trattato, produttivo in genere
di soft law, ma non di interventi
regolativi in senso stretto ( hard law) .
L’euforia
sull’essere l’Unione uscita dal guado istituzionale con le nuove regole del
Trattato di Lisbona è però durata pochi mesi.
Certo, i giuristi
hanno potuto assistere al varo, già con la sentenza Kükükdevici, di una
giurisprudenza della Corte di giustizia che valorizza al massimo, in coerenza
con la nuova formulazione dell’art. 6 del TUE, le potenzialità garantistiche
del Bill of rights di Nizza e che ne
fa un parametro di legittimità costituzionale della legislazione europea ed, a
catena, di quelle interne connesse al diritto dell’Ue: sono ormai oltre 150 le
decisioni della Corte dopo il 1.11.2009 che richiamano o applicano la Carta.
Al contempo,
con l’archiviazione del sistema a “ pilastri” l’Ue ha varato un programma di
lungo periodo nel settore della cooperazione giudiziaria civile e penale chiamato
“Programma di Stoccolma” che mira a rendere l’intera materia coerente con le
due Carta dei diritti sovranazionali. Si sono, poi, sul piano sociale e della
competitività economica, ribaditi gli obiettivi dell’ Agenda di Lisbona
arricchiti dalla dichiarata intenzione di ridurre del 20% il numero dei
soggetti a rischio sociale in Ue.
Sul piano
generale l’Unione nel suo complesso è sembrata nel 2008 e 2009 sopportare molto meglio rispetto agli
USA l’impatto della crisi economica internazionale grazie al suo sistema di welfare ed al modello sociale europeo inteso come
linea di convergenza delle esperienze nazionali più virtuose contraddistinto (
per dirla con le note parole del Premio Nobel per l’Economia Paul Krugman nell’articolo
“Salvare l’Europa”) da tutele nel contratto incentrate sul divieto del
licenziamento ingiustificato e da tutele del mercato che culminano nel diritto
ad un reddito minimo a garanzia della dignità della persona (e che quindi
contribuiscono sinergicamente a conferire una certa sicurezza ai soggetti anche
in caso di turbolenza economica).
Tuttavia
l’illusione è durata poco: la crisi si è ben presto manifestata nel vecchio
continente come una crisi del debito sovrano generata anche dalla mancata
predisposizione di una rete di solidarietà e di protezione dei paesi in
situazione di difficoltà . L’attacco speculativo all’euro si è alimentato da un
lato delle gravissime disfunzioni
istituzionali politiche e sociali di alcuni paesi -dalle menzogne della Grecia
sullo stato dei propri conti, alla bolla speculativa spagnola, agli enormi
sprechi connessi a corruzione ed evasione fiscale generalizzata dell’Italia,
alle estrosità finanziarie delle banche irlandesi- dall’altro delle carenze
regolative nella costruzione monetaria dell’euro il cui organo direttivo, la BCE, non gode delle
prerogative che hanno le altre Banche centrali ed il cui statuto limita l’azione al controllo della sola
stabilità dei prezzi.
Da quel momento si sono avuti una serie di
tentativi di rattoppare l’originaria
carenza di elementi di coesione e solidarietà interna tra i paesi aderenti
alla moneta unica e di promuovere tra mille difficoltà, ripensamenti e
ostacoli, anche di ordine costituzionale, un primo nucleo di un governo
economico per lo meno nella eurozone,
capace di irradiare politiche economiche e fiscali (nonché sociali, almeno
riguardo ad alcuni trattamenti “minimi” di base, secondo le aspirazioni del
Trattato di Amsterdam) convergenti ed unitarie.
L’esplodere della crisi dell’euro
e le ricadute sul diritto dell’Unione
Dall’esplodere
della caso Grecia l’Unione ha adottato svariati strumenti di diritto europeo ed internazionale come il six pack e il two pack ( con
il Patto euro-plus del Marzo
del 2011) una revisione semplificata del Trattato ( l’art. 136 del TFUE, onde
consentire ai paesi dell’euro di varare misure per rafforzare la moneta
unica) e da ultimo ben due Trattati
internazionali come il Fiscal compact
e il Trattato sull’ESM (sottoscritto da soli 25 paesi esclusi la Gran Bretagna e la Repubblica ceca) ,
introducendo nuovi organismi inediti ( come il Board dell’ESM composto dai Governatori delle Banche centrali) e regole d’emergenza.
Si sono così
delineate importanti fratture sia nel diritto dell’Unione che nella stessa
geometria del processo di integrazione. E’ emersa ancor più radicalmente che
nel passato l’indisponibilità britannica a far compiere all’Unione
significativi passi in avanti rispetto al quadro di Lisbona, rendendo
inevitabile il ricorso al diritto internazionale per evitare l’immobilismo e con esso la resa all’assalto dei mercati.
Tuttavia, più
in generale, la crisi improvvisa ed imprevista dell’euro ha mostrato una
profonda divisione di interessi tra paesi che hanno la moneta unica (che è divenuta ben
presto il baricentro di tutti gli sforzi degli organi comunitari) e che coloro
che ne sono al di fuori ( anche se non hanno abdicato all’intenzione di
entrarvi come la Polonia):
i primi sono avvinti in un comune destino che, spinto paradassalmente dalla
speculazione, li conduce, in molti casi obtorto
collo, verso una più stretta integrazione, i secondi diventano sempre più estranei all’agenda delle istituzioni Ue. Inoltre si è a questa
aggiunta un’altra divisione piuttosto netta tra paesi del nord, solidi
economicamente e che godono ancora di robusti sistemi di tutela sociale
incentrate sulle cosidette politiche attive per il lavoro e su tassi di
indebitamento sotto controllo ed un sud-europa in estrema difficoltà in termini
di competitività economica, di solidità di bilancio ed anche di “ tenuta” dei
sistemi sociali molto sperequati, inefficienti e poco inclusivi.
La risposta a
tale divario è stata ricercata selettivamente nelle politiche di austerity e di risanamento, non
affiancate però da strumenti di sorta ( se non il classico Fondo sociale) per
aiutare la crescita economica e lo sviluppo e la tenuta dei livelli
occupazionali.
L’abbandono
della cornice del diritto dell’Unione attraverso la necessitata porta stretta
del diritto internazionale ha portato sostanzialmente alla sterilizzazione delle
prerogative del Parlamento europeo su
materie oggi nevralgiche che assegnano – soprattutto per i paesi dell’eurozone –poteri penetranti di controllo
sui bilanci nazionali ed anche sulle connesse politiche economiche interne in primis al Consiglio ed alla
Commissione: il già previsto potere di coordinamento, prima con il varo del
cosidetto “ semestre europeo” poi con il
Fiscal compact ha visto un deciso
irrobustimento nel quadro delle politiche di salvaguardia dell’euro e di aiuti
ai paesi in difficoltà all’insegna del rigore di bilancio e del rispetto delle
indicazioni sovranazionali che assumono carattere sempre più perentori.
Quale paese a
rischio di default potrebbe oggi
permettersi di ignorare quelle Raccomandazioni annuali (in vista dei Piani
nazionali di riforma) che sino al 2009 sembravano avere carattere meramente
indicativo e comunque venivano interpretate all’insegna della massima
elasticità , visto che dal loro rispetto può dipendere il suo salvataggio? I
nuovi meccanismi costruiti attorno alla vigilanza dei bilanci nazionali e nella
gestione di nuovi organi di gestione della crisi dal “Fondosalvastati” all’ESM
ruotano attorno ad una nuova centralità intergovernativa ed, al suo interno,
sul pluspotere di diritto (come nelle quote del Board dell’ESM) e di fatto
detenuto da Francia e Germania, mentre talvolta si utilizzano strumentalmente,
pur in un contesto formalmente di diritto internazionale, gli altri organi dell’Unione
più connotati in senso sovranazionale come il Parlamento europeo ( chiamato a
collaborare con quelli nazionali per conferire efficacia alle misure disposte
nei confronti di paesi in difficoltà) , alla Commissione, cui spetta un ruolo quasi da “gendarme dei conti pubblici”,
alla Corte di giustizia cui si chiede di verificare i piani di rientro dal
deficit dei singoli paesi.
Il
distaccarsi di questa normativa dell’emergenza dal tentativo- certamente
incompiuto e per tale incompiutezza responsabile anche della situazione in atto-
di conferire con il Progetto di una Costituzione per l’Europa un più solido quadro istituzionale e
costituzionale al “ sistema –Europa”non potrebbe essere più evidente sol si
pensi che non sembrerebbe ( almeno prima
facie) che la Carta dei diritti, che per
definizione è sempre applicabile a tutti gli atti ed i provvedimenti
dell’Unione, possa essere invocata nei confronti di scelte dell’ESM che non
è un organo dell’Unione: la recente
sentenza della Corte Thomas Pringle che ha ritenuto i due Trattati internazionali
del 2012 non in contrasto con il diritto dell’Unione non fuga del tutto questo
pericolo, anche se sembra aprire qualche spazio, allorché ad intervenire siano
organi dell’Unione come la
Commissione.
Come ha
scritto Jürgen Habermas a proposito del Fiscal
compact, per la prima volta nel processo di integrazione rilevanti cessioni
di sovranità dagli Stati all’Unione non sono stati accompagnati da un
incremento del potere di partecipazione e controllo dei cittadini europei,
visto che l’organo a mandato universale deputato ad esprimere tale potere è
stato in sostanza esautorato dai nuovi meccanismi della governance della eurozone.
Le occasioni “ costituenti” della
crisi: verso un salto federale?
Ma sarebbe un
gravissimo errore vedere solo questo lato della vicenda: sotto l’incedere della
crisi l’Europa si è comunque mossa, evitando la catastrofe, scegliendo strade
inedite ( anche a causa dell’incompletezza del disegno istituzionale terminato
con Lisbona), ha creato nuovi organi e nuovi meccanismi sia pure con legami
troppo deboli con il diritto comunitario, non si è arresa al diktat della Gran Bretagna di ridimensionare
l’Unione ad uno spazio di libero mercato. Gli Stati che hanno seguito il nuovo sentiero dell’integrazione sono stati
gettati in un orizzonte di tipo nuovo, verso una comune governance sia sul fronte
fiscale, che delle politiche economiche che sociali.
E’ ormai
tramontata per sempre l’idea che, rimanendo nell’euro, i Paesi possano fare da
soli, sabotare la disciplina sovranazionale, ignorare i piani comuni: questi possono e debbono essere certamente cambiati, resi più equi e
solidaristici, ma il pensiero sovranista
in questo momento è null’altro che un pensiero della catastrofe, della resa
alla speculazione, del ritorno regressivo ad un costituzionalismo in “ paese
solo” del tutto inefficace ed
escludente, rovinoso per i più deboli posto che i più ricchi e potenti
certamente non rimarrebbero mai
imbrigliati nelle follie di governi populisti che mirano al default.
Occorre
quindi praticare davvero le occasioni
costituenti della crisi.- come ha scritto Barbara Spinelli – fare di essa un
bivio necessario, una presa di coscienza autocritica del sistema Europa, moneta
compresa.
Oggi
finalmente è entrato in agenda il tema dell’Europa politica e costituzionale,
che non è più appannaggio di élites
culturali essendo visibile la sua intima
connessione con il benessere dei cittadini europei e l’effettività dei
loro diritti fondamentali non più tutelabili negli asfittici confini nazionali:
quali passi possono pragmaticamente essere compiuti per avvinarci il più
possibile a questa meta recuperando o
rettificando quanto si è costruito in questi due anni vissuti pericolosamente,
dai primi elementi di un controllo sulla Banche europee alla cooperazione
rafforzata sulla Tobin tax europea,
all’interpretazione adeguatrice che dello Statuto della BCE di fatto ci ha
offerto il suo Governatore?
Quali sono i
termini con cui bilanciare l’etica della convinzione che mira a realizzare il
prima possibile le ambizioni del migliore costituzionalismo europeo con l’etica
della responsabilità che invece si preoccupa di non disgregare con passi
affrettati un edificio così fragile e costruito in oltre 50 anni?
Grandi
questioni si aprono per la sfera pubblica europea, in primis quella dell’eurozone
e, fra questi:
a) come
possono i Trattati internazionali essere
fatti rientrare nell’alveo del diritto dell’Unione (con la piena operatività
della Carta dei diritti), considerando anche il veto perdurante della Gran
Bretagna ed in questo quadro che ruolo assegnare al Parlamento europeo;
b)come può
completarsi la costruzione di un governo economico, che dal piano fiscale a
quello bancario si estenda alle politiche economiche e sociali;
c) come si può corredare gli impulsi unitari sul piano finanziario e
bancario con interventi che aiutino lo sviluppo e l’innovazione del “ sistema
Europa” attraverso piani ad hoc
sostenuti economicamente dall’Unione (project bond, eurobond, Union bond…)
d) quale
strada, per introdurre davvero standard minimi di trattamento sociale in modo
che le politiche di risanamento dei bilanci pubblici interni non si traducano, come spesso sta accadendo,
in riduzione di tutele sociali e nella compressione del welfare europeo.
Il primo
report della Commissione europea sul raggiungimento degli obiettivi sociali
della Strategia 20-20 segnala in tutti i paesi iniziative di tale natura che
stanno portando all’incremento (anche di notevole entità in alcuni Stati) di
coloro che sono a rischio di povertà.
Non può
pensarsi ad un governo economico d’Europa senza che questa svolta e “ cambio di
passo” faccia al tempo stesso cessare il pericolo di social dumping , evitabile solo conferendo certezza ed esigibilità
sovranazionale a tutti i diritti socio-economici protetti dalla Carta dei
diritti .
Se si intende
salvaguardare il modello sociale europeo occorre accettare il piano costruttivo
di una sua reale definizione a livello sovranazionale, il che vuol dire
superare il particolarismo che ha sempre
segnato le esperienze nazionali in questo settore.
Potremmo
andare avanti in questo elenco, ma è evidente che la crisi ed i confusi e
controversi passi compiuti per fronteggiarla hanno oggettivamente aperto una nuova fase costituente: ancor prima della
soluzione ai vari problemi in campo si apre il meta-problema della sede ove
discuterne ed anche dei soggetti che dovranno decidere: una assemblea
costituente europea, una nuova Convenzione o un mandato costituente per il Parlamento
europeo in vista delle elezioni del 2014?
Sono
interrogativi molto seri, ma siamo convinti che, mai come oggi, più alto è il
rischio, maggiore è la speranza.
La dialettica tra politica e
diritto. Quali prospettive dopo il Trattato di Lisbona?
Dopo
l’approvazione del Trattato di Lisbona, con la consacrazione di un catalogo
scritto di diritti e principi fondamentali vigenti a livello dell’Unione,
l’attività di nomofilachia eurounitaria affidata alla Corte di Giustizia si è
ammantata dell’ “allure” della
giustizia costituzionale, anche perché il Trattato ha introdotto modifiche
straordinarie nel settore della Giustizia e degli Affari interni.
In questo
quadro l’idea che dovrebbe muovere gli Stati membri dovrebbe essere quella del
rispetto dello Stato di diritto, anche attraverso la scelta di politiche
diversificate, proprio perché è intorno ad un nucleo di diritti fondamentali che
usualmente si costruisce una “carta costituzionale”.
Dal Programma
di Stoccolma, nonostante sia funzionalmente destinato a disciplinare una fase
di transizione, traspaiono, scelte di politica legata al Rule of law e ai
valori dell’Unione, ai diritti di cittadinanza e ai diritti fondamentali, che
richiederebbero, però, opzioni legislative più nette in materia di
discriminazione, trasparenza, protezione dei dati personali, buona
amministrazione; politiche meno timide rispetto alla libertà di circolazione,
alle modalità del controllo delle frontiere, al riconoscimento del diritto
d’asilo, alla regolamentazione delle politiche migratorie. Nelle stesse
politiche legate alla sicurezza, con le scelte in materia di cooperazione di
polizia e di cooperazione giudiziaria , sia nel settore civile che nel settore
penale l’obiettivo dovrebbe essere quello di dare una qualità meno aleatoria
agli obiettivi perseguiti. Il principio di solidarietà previsto dall’art. 80
del TFUE, dovrebbe essere valorizzato nella sua dimensione trasversale.
Occorre
dunque un impegno ulteriore delle istituzioni e di quelle italiane in
particolare, per spingersi verso il completamento dell’unità europea. Uno
sforzo mirato, anche in vista della futura Presidenza italiana nella seconda
metà del 2014, attraverso l’adozione di politiche che guardino il cittadino, la persona costituzionale. Il Dna
dell’azione politica dovrebbe essere dunque la Carta dei diritti fondamentali,
anche perché l’adozione di politiche comuni con competenza esclusiva dell’
Unione europea, si estenderà alla
cooperazione in materia di sicurezza e in materia di diritto penale. E’
un dato di fatto che, sinora, queste politiche si sono sviluppate in funzione
di minacce esterne. Dall’1 dicembre 2014, dovranno rientrare nel regime
ordinario con la conseguenza che la Corte di giustizia avrà la competenza a
verificare la compatibilità di queste norme con il Trattato di Lisbona. Analogo
giudizio di compatibilità con l’architettura comunitaria investirà
necessariamente fondamentali strumenti operativi dell’Unione, in questo
settore, quali Europol e Eurojust.
Il Programma
del 2014 sarà dunque un programma che non soffrirà le eccezioni, i distinguo
del precedente, e la sfida sarà quella di definire il modello europeo di
libertà, sicurezza e giustizia rispetto al modello nazionale; circostanza,
questa, che richiede un nuovo approccio all’interprete nazionale, soprattutto
nel momento in cui, in presenza di quel catalogo, lo strumento del rinvio pregiudiziale – che
già viene utilizzato frequentemente allo scopo di ottenere una sorta di
indiretta valutazione sulla “legittimità comunitaria” del diritto interno- parrebbe assumere la consistenza di un
“incidente di costituzionalità” sia pure con riferimento al diritto
dell’Unione”.
Occorre dunque
che il giudice comune continui a ragionare anche sulla proiezione
costituzionale della giurisdizione, avendo uno sguardo attento e costante al sistema delle fonti, ed in particolare
al rapporto tra ordinamento interno, diritto sovranazionale in materia di
tutela dei diritti umani, diritto dell’Unione europea, avendo la consapevolezza
che, con l’approvazione della Carta dei diritti e attraverso la giurisprudenza
della Corte EDU la persona è stata
posta al centro della Politica europea, anche perché, dopo il 2014, la rule of law dovrà avere un periodo di
verifica periodica.
Il rapporto fra diritto eurounitario e diritto
interno: l’individuazione di un sistema complesso di legalità
I problemi
concernenti il rapporto fra diritto
nazionale e diritto europeo investono, dunque, ormai, tutto il nostro sistema
ordinamentale.
Il nodo
permanente, derivante dal sistema multilivello delle fonti normative, tra
legalità nazionale e legalità comunitaria,
dovrà essere sciolto nell’applicazione unitaria della disciplina
rispetto al caso concreto. Al giudice spetterà di coordinare regole del nostro
ordinamento su casi concreti; con sullo
sfondo il grande problema del valore dell’interpretazione della CEDU, che porta
il giudicante a dedurre la regola generale da come è stato risolto il caso
concreto. Ma la coerenza della teoria dell’interpretazione, rispetto al caso
concreto, è inevitabilmente una coerenza debole, che può trovare una sua
soluzione , forse, solo nel momento in cui si perfezionerà l’adesione dell’Unione
alla CEDU. Questo ci fa ritenere essenziale la necessità di un dialogo
fruttuoso e costruttivo, di un continuo rapporto dialettico tra diritto e
politica. L’Europa ha bisogno delle sue istituzioni, che parlino ed agiscano
positivamente e concretamente. Nel silenzio della politica non possono parlare
solo i giudici, anche se l’affermazione dei diritti trova un fattore di spinta
fondamentale nell’intervento giurisprudenziale. Gli esempi virtuosi
dell’affermazione del diritto fondamentale trova sempre un suo costante punto
di riferimento nella presenza di una azione politica valida e capace. Altrimenti, come abbiamo constatato in
particolare in questo ultimo anno, ad esempio, in settori nevralgici della
società, negli interventi bilanciati tra libertà economiche e diritti sociali
fondamentali questi ultimi inevitabilmente saranno sconfitti.
In questa
prospettiva lo schema tradizionale di legittimazione della giurisdizione,
fondato sul suo carattere “scientifico” e sul modello cognitivistico è ormai
superato dai fatti. Nella percezione diffusa la giurisdizione è spesso colta
come una sorta di “decisionismo interessato” e ciò ne mina la legittimazione,
colpendo poi l’istituzione nel suo complesso.
Per
contrapporsi a queste posizioni, oggi prevalenti, non basta affermare il
carattere tecnico della giurisdizione, che è, come abbiamo visto, ormai un
fenomeno assai più complesso; è necessario trovare una legittimazione più
forte, non limitata al profilo tecnico, ma estesa a un piano culturale
complessivo, che riguarda dunque il sistema del suo autogoverno, la Rete relazionale che collega
lo stesso in ambito europeo; è necessario dare sostegno e concretezza anche
alle nuove figure istituzionali, che interpelleranno presto il nostro sistema
anche attraverso la necessaria applicazione delle Direttive europee. La stessa
struttura di Europol e di Eurojust e la
collegata figura del P.M. europeo dovranno confrontarsi con un sistema di
compatibilità normativa che avrà come
base la qualità definitoria dei principi e delle disposizioni del Trattato di
Lisbona. L’applicazione dei criteri relativi alla titolarità del’azione penale
e all’individuazione del giudice competente sono solo due tra gli esempi che si
potrebbero fare rispetto ai problemi che si porranno sul tappeto, e segnalano
la necessità di un’attenzione costante su questi temi, anche perché emergeranno
con tutta la loro forza dirompente
durante il periodo della Presidenza italiana.
E’ dunque una
proposta culturale e politica, che rivendica il ruolo e recupera la consapevolezza
della giurisdizione, su problemi relativi ai diritti fondamentali della
persona. E’ una prospettiva di crescita e di recupero del senso della
giustizia, cioè del rispetto del principio di legalità, secondo un processo
garantito e la sua ragionevole durata.
Il Giudice come organo di base
dello spazio giudiziario europeo
In questo quadro, il giudice, anello ultimo
della catena che porta all’applicazione del diritto interno alla luce di quello
comunitario, assume un ruolo primario e, per l’effetto, di grande
responsabilità.
L’interprete nazionale, organo
di base dello spazio giudiziario europeo, ha il diritto ed il dovere
istituzionale di utilizzare la propria funzione
per consentire di trovare nel momento ermeneutico la sintesi ed il connubio
ottimale in un sistema delle fonti sempre più etero-integrato.
Con l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona e l’ingresso della Carta dei Diriti Fondamentali fra gli
atti normativi di diritto primario dell’Unione tale ruolo si rafforza, mentre
il dialogo fra le Corti assume una portata un tempo inimmaginabile.
La Corte di Giustizia tende ad
avere una “funzione nomofilattica” del
diritto dell’Unione che gioca un ruolo integrato con la “funzione
nomofilattica” svolta dalla Corte di Cassazione, mentre dell’uniforme
applicazione del diritto dell’Unione resta garante il meccanismo del rinvio
pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE; al contempo, pur in attesa
dell’adesione dell’Unione alla CEDU, si impone l’esigenza di interpretare la
norma interna conformemente alla Convenzione europea dei Diritti Umani onde
scongiurare, per quanto possibile, la necessità di ricorrere alla Corte
Costituzionale perché, mediante il meccanismo del parametro interposto di cui
al novellato art. 117 Cost., rimuova temibili aporie in grado di far crollare
un sistema che sempre più va diventando integrato.
Sia sul versante più
strettamente comunitario che su quello internazionale di matrice CEDU, quindi,
l’obbligo di interpretazione conforme che grava sull’interprete consente di
salvaguardare l’unità del sistema.
L’asse che collega le fonti
all’interpretazione si arricchisce di nuovi strumenti e richiede al giudice uno
sforzo peculiare diretto a garantire la tenuta delle strutture giurisdizionali
e, soprattutto, l’effettività della tutela dei diritti ad esso sottesi.
Un impegnativo compito grava sul giudice, di
interpretazione per così dire “comunitariamente” e “convenzionalmente”orientata; un giudice,
quindi, la cui altissima formazione professionale, anche con riguardo al
diritto europeo, diventa non solo un obbligo imprescindibile ma, anche, ed
anzi, segnatamente, un imprescindibile diritto.