Il commento

“Giudici e non giudichesse”

Contro le ossessioni si può fare molto poco. Quando poi due ossessioni si sommano fino a diventare moltiplicatore l’una dell’altra, la situazione è destinata ad andare fuori controllo. Giudice e donna sono per taluno due ossessioni, ben radicate, che conducono al corto circuito. Così è stato e non per la prima volta. Le parole intelligenti che abbiamo letto in alcuni messaggi costituiscono un antidoto alla contaminazione e possono aiutarci a lasciare che l’ossessione segua la sua strada infelice senza fare troppi danni. E’ il caso della riflessione di Paola Di Nicola, che pubblichiamo di seguito (Luigi Marini).

“Giudichesse”, “donne” (due volte), “donne magistrato”, “femministe e comuniste”.

Questi i termini utilizzati, nell’ordine che ho indicato, da un uomo politico durante una trasmissione televisiva per definire un collegio del Tribunale civile di Milano. Basta questa sequenza per comprenderne tutta la violenza verbale e culturale che la  connota; basta questa sequenza per leggere, con colori evidenziati, il disprezzo per un organo giudiziario, fondandolo sul genere cui appartengono i suoi componenti.Il linguaggio non è neutro: dà voce ad un mondo di pensieri, di storie, di riflessioni, ma anche di stereotipi, di pregiudizi, di regole sociali.

La sequenza che il politico ha utilizzato per mettere in discussione gli elementi costituzionalmente distintivi di un Tribunale, ovverosia la terzietà e l’imparzialità,  nasce in modo eloquente dal fatto che nel caso che lo interessava l’organo giurisdizionale fosse costituito da donne.Un dato in sè dimostrativo che terzietà e imparzialità fossero compromesse. Cosa c’è di più sacralmente laico per un magistratro, in termini istituzionali e professionali, se non il contenuto dell’art. 111 della Costituzione che delinea i connotati della funzione cui appartiene?

“Le giudichesse” è ovvio che non sono giudici. Il suffisso le fa nafraugare in un mare di incapacità.Così come “Le donne”, detto due volte di seguito proprio per rafforzare l’invettiva, non sono giudici. Non sono che donne.”Le donne magistrato” non sono giudici, altrimenti sarebbero “magistrati” e basta.Solo alla fine, e non è un caso, viene indicata come lesiva anche la presunta adesione culturale e politica (“femministe e comuniste”) delle componenti del Collegio milanese. E’ l’identità di genere delle colleghe che viene schernita, vilipesa. L’essere donne viene utilizzato come fosse un marchio di colpa, capace di per sè a dimostrare l’assenza di ciò che è un vero giudice.

Un pregiudizio che ha radici millenarie tanto da permeare l’Assemblea Costituente quando si discuteva se scrivere nella Costituzione Italiana, nata dalle battaglie culturali ed ideali e dal sangue versato dalle donne e dagli uomini del nostro Paese, se le donne potessero diventare giudici.”La donna deve rimanere la regina della casa, più la si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta perragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa.” (Antonio Romano, magistrato democristiano, così argomentò la sua contrarietà all’ammissione delle donne nell’ordine giudiziario).

Questa argomentazione era tanto rappresentativa del comune sentire che le donne restarono fuori dalla porta dei tribunali ancora per altri decenni, con buona pace per il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 di quella stessa Costituzione.  E’ dunque una questione culturale quella sequenza urlata in televisione a testa bassa: rappresenta un mondo, una storia, una visione dell’identità di genere che assume effetti deflagranti rispetto al modo stesso di intendere la nostra funzione e di concepire l’ istituzione giudiziaria a partire già da domani mattina.

Con quelle parole è stata restituita voce a quegli atroci pregiudizi che non vengono verbalizzati ma che resistono e contro i quali le colleghe venute prima di me hanno faticosamente combattuto per consegnarci un’istituzione vera e credibile declinata al maschile e al femminile. E non basta più spiegare, perchè ci si acquieti, che le donne in magistratura sono quasi il 50 %.Non è una questione di numeri.  Essere ritenute non affidabili come magistrati perchè donne non è un semplice dileggio, è una ferita culturale non rimarginata che nasce da un sostrato millennario – non annullabile con pochi decenni di storia in magistratura –  che permea ancora molti, moltissimi dentro le aule di giustizia.

E questo non è un problema personale della singola donna magistrato che, giorno dopo giorno, oltre a tutto il resto deve anche dimostrare capacità e carattere per combattere il bieco e sotterraneo pregiudizio che serpeggia, ma è essenzialmente un problema istituzionale perchè riguarda il modo in cui l’identità di genere, cioè la parte più intima e più insopprimibile di ciascun essere umano, viene utilizzata come strumento di denigrazione (…per le donne). Queste riflessioni sono solo il mio modo per regalare un abbraccio forte e grato alle colleghe del Tribunale di Milano con le quali oggi più che mai mi sento ancora più di stringere forte attorno a me e a loro la toga che indossiamo.

Paola Di Nicola

http://www.progressonline.it/FCKFiles/erectil/

10/01/2013

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