Prime riflessioni sul Ddl Pillon

Minori

Prime riflessioni sul Ddl Pillon

di Giulia Marzia Locati
giudice del Tribunale di Torino
Dal superiore interesse del minore ad una visione adulto centrica delle relazioni familiari

Il disegno di legge Pillon presenta, a mio avviso, una serie di punti critici e, se approvato, è destinato a segnare un passo indietro nel percorso di tutela dei minori e dei loro diritti.

 

1. L’impianto del Ddl risponde ad una visione adulto-centrica che, oltre a non tenere in alcun modo conto della realtà delle famiglie italiane, si pone in pieno contrasto con quel “superiore interesse del minore” che deve necessariamente orientare il legislatore nella “promozione della personalità e nell’educazione del soggetto umano in formazione” (C.cost. n. 11 del 1981) e che deve essere perseguito caso per caso, avendo riguardo alla peculiarità di ogni singola situazione.

In tal senso, la previsione automatica e obbligatoria di tempi di permanenza paritaria presso ciascun genitore (in assenza di accordo, almeno 12 giorni con ognuno), indipendentemente da manifestazioni di volontà contrarie dei figli e a prescindere dall’età, svela una concezione del minore quale bene materiale da dividere a metà tra gli adulti e non considera le esigenze di un bambino, soprattutto in tenera età, a un’organizzazione regolare e stabile della propria esistenza.

La bigenitorialità, a differenza di come la intende questo ddl, non può essere intesa come obbligo per il minore di trascorrere pari tempo con i genitori – come se fosse un diritto che questi rivendicano nei confronti del figlio -, ma, al contrario, come diritto di quest’ultimo alla continuativa e stabile presenza, nella propria vita,  di entrambe le figure genitoriali – chiamate a cooperare nella sua assistenza, educazione e istruzione - nella più piena garanzia di forme di protezione, per quanto possibile, dalle lacerazioni che inevitabilmente le separazioni portano nella vita delle famiglie.

Le norme sulla casa familiare, poi, fanno tabula rasa del bisogno del bambino – sottolineato da tutti gli operatori specializzati in questo ambito – di non stravolgere le proprio abitudini di vita rimanendo, prevalentemente, nel luogo in cui è cresciuto.

 

2. Il disegno di legge prevede poi la mediazione obbligatoria quale condizione di procedibilità della separazione, con ciò contrastando con l’unanime parere della comunità scientifica secondo cui tale istituto presuppone la spontanea disponibilità emotiva dei partecipanti a esso.

Inoltre, il fatto che non siano previste deroghe impone che sia doveroso avvalersene anche nei casi di alta conflittualità tra le parti – casi in cui dovrebbe essere inapplicabile –, in aperta violazione dell’art. 48, punto 1, della Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia nel 2013 che ne vieta l’utilizzo in caso di violenza: è noto, infatti, che è nel momento in cui la donna sceglie di interrompere la relazione che la conflittualità raggiunge il suo apice. L’obbligatorietà della mediazione disposta dal ddl porta così con sé il rischio che i soggetti più deboli decidano di non intraprendere un percorso di separazione per il timore di ripercussioni più o meno gravi.

Ancora, si consideri che per il procedimento di mediazione non è prevista l’ammissione al gratuito patrocinio: si introduce uno squilibrio evidente tra chi potrà permettersi di separarsi e chi no. In piena violazione del principio di uguaglianza.  

 

3. L’assegno perequativo mensile per il mantenimento dei figli, che il genitore non collocatario è chiamato – oggi – a corrispondere all’altro, risponde al principio in base al quale, tenendo conto dell’impoverimento del nucleo familiare generato inevitabilmente dalla separazione, debba essere tutelato il diritto del minore a mantenere un tenore di vita simile a quello goduto in precedenza. Il mantenimento diretto durante i tempi paritari imposti dal decreto e la conseguente abolizione dell’assegno, stante il forte squilibrio economico che caratterizza la gran parte dei coniugi, si traduce, al contrario, in una lesione di tale diritto. Non può, invero, passare l’idea che ciascuna figura genitoriale sia nelle condizioni di dare al minore pari tenore di vita.

Inoltre, si prevede che il figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente debba farsi carico, per vedersi riconosciuto il diritto al mantenimento, di proporre una domanda giudiziale nei confronti di entrambi i genitori, con ciò non considerando il suo diritto a non essere coinvolto nelle dinamiche conflittuali della coppia genitoriale.

 

4. Da ultimo, l’estensione della norma sugli ordini di protezione contro gli abusi familiari in tutti i casi in cui il minore rifiuti di vedere l’altro genitore, introduce una sostanziale presunzione di abuso nei frequenti casi nei quali ciò sia determinato da violenza domestica, anche solo psicologica, e tradisce una totale sfiducia negli operatori del diritto che, sempre, hanno il dovere di accertare se ciò sia determinato da eventuale manipolazione da parte dell’altro genitore. Costituisce una grave violazione dei diritti del minore, altresì, supporre in via automatica che il suo rifiuto di incontrare un genitore sia comunque da imputare al condizionamento dell’altro, non considerando invece né la valorizzazione della volontà del bambino – pilastro della riforma del diritto di famiglia del 2013 -, né l’obbligo di approfondire, sempre e comunque, l’adeguatezza sul piano genitoriale di un adulto che ben può aver esposto il figlio a forme di violenza domestica.

 

È evidente che se questo disegno di legge verrà approvato, l’effetto sarà quello di aggravare gli squilibri familiari e le relazioni disfunzionali, accentuando la posizione del soggetto forte, anche sul piano economico, della famiglia, a discapito di quelli più deboli; tra questi, prima di tutto i minori coinvolti, ma anche le donne. L’assunzione di pari responsabilità nella gestione familiare e dei figli è un percorso del quale queste ultime si sono sempre fatte promotrici, ma che ancora, purtroppo, non corrisponde alla realtà delle famiglie. Dai dati Istat, infatti, si ricava che solo nel 60% delle famiglie le donne lavorano, peraltro normalmente con un reddito medio di gran lunga inferiore a quelle del marito.

A ciò si aggiunga che la realtà dei Tribunali ci dice che nella maggioranza delle separazioni consensuali l’intervento del giudice è necessario per aumentare i tempi di permanenza del figlio presso il padre, non contro la volontà della madre, ma contro la volontà del padre, la cui organizzazione di vita spesso non gli consente di occuparsi del figlio in modo adeguato.

Proprio per tale ragione l’obiettivo, condiviso da tutti gli operatori specializzati del settore di diritto di famiglia e minorile, è quello di ampliare il più possibile l’applicazione di una paritetica presenza dei genitori nelle vite dei propri figli; tale obiettivo è perseguibile con politiche di diffusione della cultura dei diritti del minore e di sostegno alle famiglie. Non attraverso le imposizioni previste da questo disegno di legge.

01/10/2018

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