L'uso politico del pubblico ministero

Il commento

L'uso politico del pubblico ministero

di Esecutivo di Magistratura Democratica

di ALFREDO GUARDIANO

Le reazioni dell’opinione pubblica e degli attori politici ai gravissimi fatti emersi sino ad ora dall’inchiesta Mafia Capitale si prestano ad una lettura non sempre univoca, che testimonia, ad un tempo, la complessità degli interessi in gioco e la mancanza di un approccio soddisfacente.

Lo sdegno dei cittadini, raccontano le cronache, si traduce, come ai tempi di “Mani Pulite”, nell’ennesima ondata di discredito che investe la politica, e nella richiesta di arresti “cumulativi”, rivolta anche ad organi, come il Presidente dell’Autorità Anticorruzione (lo raccontava lo stesso Cantone, giustamente perplesso, in un’intervista di qualche giorno fa), che tali poteri non hanno.

La politica tenta di intercettare la rinnovata indignazione popolare, muovendosi su due binari.

Da un lato, cercando di rendere più efficace l’azione repressiva, attraverso l’innalzamento delle pene, con il relativo aumento del tempo necessario per giungere alla prescrizione dei reati, ma, contraddittoriamente, non accogliendo richieste, come quelle avanzate dall’A.N.M., che più incisivamente potrebbero contrastare l’azione dei poteri criminali, secondo un copione, appartenente, ormai, alla biografia del nostro Paese, in base al quale ad ogni “emergenza” segue un intervento nel settore penale, attraverso un potenziamento degli strumenti repressivi.

Dall’altro, coinvolgendo i magistrati direttamente nel governo della “cosa pubblica”.

Il 22 dicembre il C.S.M. ha deliberato il collocamento in aspettativa, senza retribuzione, di Alfonso Sabella, per consentirgli di andare a ricoprire il ruolo di assessore alla legalità nella giunta del comune di Roma.

Pur trattandosi di un tema delicatissimo, perché attiene all’esercizio dei diritti politici (fermo restando che, a mio modestissimo avviso, l’assessorato alla legalità è un ossimoro straordinario ed, anzi, bisognerebbe vietarne l’istituzione), non può che essere giudicata negativamente questa ennesima  dimostrazione di un fenomeno sempre più marcato: la cooptazione dei magistrati, anzi, diciamo meglio, dei pubblici ministeri, nella governance politico-istituzionale e la fuga dalla giurisdizione verso incarichi da cui il prestigio e l’efficienza della magistratura non ricaveranno nessun vantaggio (ma i singoli magistrati sì, in termini di visibilità, presupposto oggi indispensabile per intraprendere una carriera politica).

Sabella, peraltro, non è il solo.

Recentemente anche Vania Contrafatto ha lasciato, tra le polemiche, la Procura della Repubblica di Palermo, per ricoprire nella giunta regionale siciliana il ruolo di Assessore all’Energia (materia nella quale deve avere maturato una competenza specifica, immagino, altrimenti la sua nomina, per chi non è addentro alle vicende siciliane, sarebbe poco comprensibile).

E gli esempi potrebbero continuare.

Tutto ciò avviene, peraltro, in un contesto in cui le massime autorità politiche dello Stato invitano i magistrati a limitarsi a scrivere sentenze ovvero a rifuggire da protagonismi nocivi per l’immagine della magistratura (accettare un incarico politico sarà, allora, un “comportamento propriamente o impropriamente protagonistico”, per riprendere un passaggio del discorso del Capo dello Stato al “plenum” del Consiglio del 22 dicembre? Dovrebbe essere osteggiato, perché sottrae braccia e cervelli alla redazione delle sentenze? O sono ammesse eccezioni?).

Dal suo canto l’A.N.M. che nel giugno del 2011, ritenne giustamente inopportuno che Pino Narducci, pubblico ministero a Napoli, diventasse assessore nella giunta di De Magistris, quello stesso Narducci che, per tale scelta, venne inopinatamente sottoposto a procedimento disciplinare, proprio dai probiviri dell’ANM, non sembra interessarsi più di tanto della questione (ma, ove mi fosse sfuggito qualche comunicato o intervista al riguardo, sono pronto a fare ammenda).

Insomma “grande è la confusione sotto il cielo”, ma la situazione non è favorevole, soprattutto non lo è la prospettiva, coltivata dalla politica, secondo cui la presenza salvifica di un magistrato è sufficiente per assicurare legalità ed etica all’interno delle amministrazioni pubbliche, trattandosi di una scelta che, sotto un’immagine di rinnovamento, corre il rischio di deresponsabilizzare ulteriormente politica ed amministrazione, creando, inoltre, una pericolosa confusione di ruoli (e di culture) tra chi indaga e giudica e chi governa, con buana pace di color che si considerano, formula molto in voga, “tecnici” prestati alla politica.


articolo pubblicato su "La Repubblica ed. Napoli" il 27 dicembre 2014


(28/12/2014)

28/12/2014

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